La pellicola fotografica è un materiale chimicamente reattivo che registra un’immagine o quando la pellicola stessa viene esposta alla luce. Tipicamente,una pellicola (anche comunemente chiamata film) è posizionata all’interno di una macchina fotografica e la luce proveniente dall’immagine da fotografare è entra tramite un foro relativamente piccolo posto dinanzi al film stesso (davanti al foro vengono poi posizionati gli obiettivi.
La pellicola viene esposta all’immagine aprendo l’otturatore nel corpo macchina (una specie di tendina), e la combinazione tra la velocità dell’otturatore e la sensibilità della pellicola stessa (la reattività chimica del film) gestisce la quantità di luce che colpisce la pellicola. L’immagine viene registrata sulla pellicola ma non è direttamente visibile. E’ infatti necessario rimuovere la pellicola dalla fotocamera e svilupparla tramite processi chimici che permettono di fissare l’immagine e renderla visibile all’occhio umano. L’immagine visibile ottenuta è negativa: i colori brillanti dell’oggetto fotografato appaiono più scuri sul negativo in quanto il film, in quella zona, ha ricevuto la massima esposizione alla luce. L’immagine negativa viene quindi tramutata in positivo impiegando un altro tipo di trattamento chimico che finisce con la stampa dell’immagine su carta sensibile. Tutti gli elementi del processo di stampa, delle parti della telecamera, del tipo e qualità dell’obiettivo, il tipo di pellicola (compresa la sua chimica di base impiegata per la sua realizzazione), il processo di sviluppo, il processo di stampa ed il tipo di carta per il positivo contribuiscono alla nitidezza della fotografia finale.
La storia
Abbiamo già parlato della nascita della pellicola fotografica nell’articolo La storia della fotografia. Per quanto riguarda la parte squisitamente tecnica, la pellicola è stata scoperta/inventata in un laboratorio di chimica nel lontano 1727 da un medico tedesco rispondente al nome di Johann Henrich Schulze. La prima “pellicola” (termine non proprio corretto in questo caso) era un composto di gesso, argento e acido nitrico inseriti all’interno di un’ampolla di vetro. Quando la soluzione veniva esposta alla luce solare, questa cambiava colore da bianco a viola nella parte direttamente esposta alla luce solare. A causa di questo fenomeno, il composto venne chiamato scotophorus, “portatore di tenebre”
Schultze fece quindi un altro esperimento: incollò sull’ampolla dei ritagli di lettere e numeri e si rese conto, una volta esposta l’ampolla alla luce solare, che queste lettere e numeri venivano come “stampati” sulla soluzione presenta all’interno dell’ampolla stesso: il composto cambiava colore solo nelle zone non poste in ombra dai ritagli.
Anche se la scoperta ha segnato la nascita della fotografia, non è stato usata per oltre 100 anni. Bisogna infatti aspettare il 1839 ed il pittore francese Louis Daguerre per osservare la prima reale “pellicola fotografica”. Daguerre creò il primo vero processo fotografico in cui pose dello iodio liquido su una piastra di rame argentato. Piastra successivamente esposta alla luce. Lo iodio liquido era l’emulsione (il composto chimico fotosensibile) mentre la piastra di rame era la base. Le foto così ottenute erano chiamate dagherrotipi. Successivamente, l’inventore americano Samuel F.B. Morse imparò l’arte del dagherrotipo e lo insegnò a Matthew Brady che realizzò una lunga serie di immagini della Guerra Civile, ora documenti storici particolarmente importanti nonché dei veri e propri monumenti artistici nel campo della fotografia.
Il Dagherrotipo era però ingombrante da usare. Le macchine fotografiche, dovendo contenere delle piastre molto grandi, erano enormi. Foto grandi corrispondevano a piastre grandi (quindi esistevano macchine di diverse dimensioni a seconda del tipo di oggetto da fotografare) ed in più bisognava evitare di agitare troppo la lastra pena lo spostamento dell’emulsione. Non certo una comodità. Mentre Daguerre continuava a sviluppare il suo processo, William Henry Fox Talbot, un archeologo inglese, creò nel 1841 un nuovo processo, chiamato calotipo (bella foto) nel 1841. Talbot aveva rivestito una base di carta con un’emulsione di ioduro d’argento e produceva un’immagine negativa mediante un processo di sviluppo di tipo chimico. Il calotipo è molto più simile alle moderne pellicole anche perché, ottenendo un negativo, era possibile stampare più copie partendo dall’originale Come per il dagherrotipo, anche il calotipo andava usato da umido ed il fissaggio doveva essere effettuato prima che la lastra si asciugasse.
La flessibilità della fotografia è stata ulteriormente migliorata nel 1871, quando RL Maddox ha inventò il processo a “piatto a secco”. Una gelatina a base di ossa e pelli di animali contenente ioduro d’argento sostituì le emulsioni fino ad ora impiegate. Il grande vantaggio era dovuto al fatto che non era necessario sviluppare la fotografia subito (quindi quando la “pellicola” era umida) ma esa sufficiente in un secondo momento inumidire la gelatina.
La complicata procedura di fabbricazione della piastra, di esposizione e trasformazione in fotografia finale era stato suddiviso in parti ben differenti tra di loro, cosa che rese il lavoro del fotografo enormemente più facile nonché più economico: il fotografo non era più necessariamente il preparatore della lastra o lo sviluppatore.
George Eastman riuscì successivamente ad unire il lavoro di Maddox (la gelatina) con la base del calotipo di Talbot (la carta). Era il 1884 ed era nato il primo rullino fotografico. Eastman passò rapidamente dalla carta alla plastica e nel 1889 creò la prima pellicola trasparente. Dopo un anno fondò un’azienda che commercializzò questo prodotto. Era stata fondata la Kodak.
Una pellicola fotografica è composto dall’emulsione e dalla base che compongono la pellicola, la cassetta o cartuccia, un imballaggio esterno di protezione. I materiali utilizzati per realizzare l’emulsione sono argento, acido nitrico, e gelatina. La base è costituita da cellulosa e solventi che si mescolano a formare un liquido denso chiamato droga. La pellicola, di dimensioni (le più famose) pari a 35 millimetri viene avvolta su di un rocchetto di metallo. Il tutto è quindi inserito in un contenitore metallico di protezione. Strisce di plastica sono quindi aggiunte in corrispondenza dell’apertura del contenitore da dove la pellicola esce. Esistono anche altre varianti (come le pellicole Polaroid) dove siamo in presenza di differenti misure e differenti contenitori di protezione. L’imballaggio esterno è normalmente costituito da una lamina rivestita di carta, plastica o cartone. La confezione esterna è anche un isolante e protegge la pellicola dall’esposizione alla luce, al calore, ed all’aria.
Il processo di produzione
La Base
Per la maggior parte dei film, la base a cui è fissata l’emulsione fotosensibile è costituita da acetato di cellulosa: una pasta di legno o di cotone (fibre corte di semi di cotone) miscelati con acetato per formare una sorta di sciroppo. Dei pellets solidi di precipitato di acetato di cellulosa sono estrapolati dallo sciroppo, lavati ed asciugati. I pellet sono quindi sciolti in solventi per formare il film trasparente. Il film in questione si sviluppa in un foglio sottile ed uniforme “tirata” da un paio di ruote placcate in cromo per evitare zone non lisce. I solventi che hanno sciolto i pellet evaporano man mano che le ruote girano, creando così la base della pellicola fotografica. Il foglio di plastica che deriva da questo processo è spesso qualche decimillesimo di pollice ed viene successivamente avvolto su delle bobine dal diametro di 137cm.
L’emulsione
L’argento è l’ingrediente principale dell’emulsione. Dei lingotti d’argento puro vengono suddivisi in piccole barre, accuratamente controllate e pesate. Le barre vengono disciolte in una soluzione concentrata di acido nitrico (il processo rilascia calore). Dopo che l’acido ha completamente disciolto l’argento, la soluzione viene agitata e raffreddata continuamente. Il raffreddamento provoca la precipitazione di cristalli di nitrato d’argento, rimossi dalla soluzione ed inseriti all’interno di una centrifuga/setaccio al fine di renderli “puri” ed eliminare anche le ultime particelle di acqua. A partire da questo punto, il processo di creazione dell’emulsione procede nella totale oscurità a causa della fotosensibilità dei materiali.
In contemporanea, viene creata la gelatina con dell’acqua distillata e trattata con ioduro di potassio e bromuro di potassio. La gelatina funge da legante e da contenitore per i cristalli di nitrato d’argento, nonché da “collante” sulla base. La gelatina ed i prodotti chimici sono mescolati in appositi forni e il composto viene posto al di sopra di strati di argento. Mentre la miscela si raffredda, si creano sali di alogenuri d’argento (combinazioni chimiche del argento, ioduro, bromuro) che sublimano nella gelatina sotto forma di finissimi cristalli e che rimangono intrappolati al suo interno una volta che il tutto si è raffreddato.
L’unione di base ed emulsione
L’emulsione viene pompata attraverso un sistema di tubazioni (chiamata coating alley) che si estende su di un’area di lavoro enorme: larga 61 metri e alta circa cinque piani!. Quest’area deve essere ovviamente perfettamente pulita e priva di polvere e tutte le operazioni di rivestimento con l’emulsione sono controllate da un’enorme quantità di sonde, sensori e pannelli di controllo, in maniera del tutto automatizzata.
Il macchinario sopra descritto è in grado di sistemare una precisa quantità di emulsione sulle strisce della base. Una volta essiccato il tutto, lo strato di emulsione si aggira tra i 6 ed i 100 millesimi di pollice di spessore. Il processo è ripetuto per tre volte nel caso di pellicole a colori: ogni strato di emulsione è drogato da delle sostanze chimiche in grado di reagire ad un particolare colore. I tre strati di emulsione corrispondono al blu, verde e rosso chiaro: in pratica ogni fotografia è una tripla immagine latente, ogni immagine in grado di reagire in modo differente al colore della luce (o meglio, alla sua lunghezza d’onda). Le strisce così ottenute (base più emulsione) sono tagliate in dimensioni progressivamente più strette, forato sugli estremi in modo che la pellicola può essere fatta avanzare nella fotocamera e quindi avvolti su un rocchetto (ad eccezione delle pellicole istantanee o pellicole particolari che sono imballate in forma piatta).
Il Packaging
La pellicola è confezionata in cartucce, rullini, rotoli, confezioni per macchine istantanee, o fogli. Le cartucce sono utilizzate in alcuni tipi di macchine fotografiche e sono composte da un tutt’uno pellicola+cartuccia. Una volta usata, il tutto viene rimosso, dopo che la parte fotosensibile (la pellicola) è stata avvolta all’interno della cartuccia stessa. I rullini sono fatti per le fotocamere che utilizzano la classica pellicola da 35 millimetri. Sono costituite da un rocchetto racchiuso in un rivestimento metallico. Una lingua plastica fuoriesce dalla fessura del rivestimento metallico, lingua che viene presa dall’utente e fissata sul rullo di avvolgimento della fotocamera stessa. Quando il film è finito, viene riavvolto sul rocchetto del rullino, e l’unità viene rimossa. I rotoli sono delle pellicole avvolte in carta e avvolte su di un rullo simile a quello della fotocamera in uso. Una volta terminato il rotolo, si tira via il nuovo rotolo (sul rullo della fotocamera) e si sistema il rullo che prima era nel rotolo al posto di quello usato (in pratica, è un rullino molto più economico e non riavvolgibile). Le confezioni per le fotocamere istantanee contengono da 8 a 12 fogli che vengono espulsi singolarmente dopo ogni scatto.
I rulli ed i rullini (la prima protezione esterna), in plastica, sono realizzati mediante stampaggio ad iniezione, in cui un fluido plastico viene spruzzato in forme o stampi. Questi sono fatti indurire, rimossi dagli stampi, tagliati e levigati. La pellicola viene poi collocata sui rulli dei rullini che vengono a loro volta sigillati. I contenitori metallici esterni (quelli con le scritte, per capirci) sono stampati successivamente al loro esterno, tagliati e levigati (Il metallo è ovviamente sagomato attorno alle bobine di cui sopra). Quindi viene aggiunto un bordo di protezione in plastica. I contenitori di plastica ed i tappi sono invece realizzati a parte e vengono aggiunti immediatamente come protezione del rullino. Tutti i prodotti sono etichettati, con tanto di data di scadenza.
La pellicola fotografica è estremamente sensibile alla luce, al calore, alla polvere e alle impurità. Il flusso d’aria che colpisce le pellicole e i macchinari viene costantemente filtrato. Temperatura e umidità sono attentamente regolati. I locali di produzione sono sterili ed i lavoratori devono indossare indumenti protettivi per poter accedere alle aree di lavoro. Ogni fase della produzione è controllata con attenzione. Per esempio, la cromatura delle ruote su cui si forma la base viene controllata costantemente per evitare imperfezioni nella base. Campioni di pellicola vengono rimossi ad intervalli regolari e sottoposti a test, tra cui lo scatto di di fotografie.
Nei due video di seguito, un po’ datati per la verità, viene mostrato il processo produttivo per intero nelle fabbriche americane della “fu” Kodak.
Da Johann Henrich Schulze a Louis Daguerre,manca un passaggio molto,molto importante : Nicéphore Niépce. La prima vera fotografa ,bettazzata col mone “eliografia” dal suo inventore (Niépce….) è ” Vista dalla finestra a Le Gras” , abbastanza famosa .Poi è arrivato Daguerre,si sono conoscuti e,da li…….è storia.
Grazie